Sono ben diverse le situazioni in cui vive una persona disabile. Quasi sempre le sono accanto i familiari più stretti che indirizzano la loro vita in base alle esigenze del loro caro.
Nonostante i proclami di un approccio umanizzante delle Istituzioni alla disabilità, la realtà non è così: infatti nella visione aziendalistica la persona fragile è considerata come oggetto e non come soggetto bisognoso di assistenza.
Da credente chiedo alla Chiesa (pastori e fedeli) di contribuire a diffondere nella società la visione di ogni persona come portatrice di dignità e valore e non come oggetto in balia dei dettami mercantili che governano il mondo. Riconoscere a ognuno la sua unicità, il suo volto, un valore inviolabile è il “cuore” del Cristianesimo.
E’ urgente procedere in quest’opera educativa di semina e di testimonianza, ad ogni livello, specie verso le nuove generazioni.
Vorrei vedere sacerdoti e fedeli che non temono ad avvicinarsi alle persone disabili. Certo tale situazione intimorisce: crea disagio confrontarsi col senso del limite, perché tutti abbiamo una sottile paura verso la diversità intesa che si discosta dalla normalità riconosciuta. 
Spesso si crede che il rapporto col la disabilità tocca agli esperti: questo è tipico della nostra società che cerca gli specialisti per qualsiasi problema umano. La disabilità, come la malattia, è una condizione di fragilità che entra nella vita di una persona. Chi ne soffre chiede soprattutto di essere accompagnato in questo difficile cammino da altre  m persone, e di non essere lasciato solo. I disabili e i loro familiari oltre che di specialisti, hanno bisogno di amici, di compagni di viaggio di fratelli nella fede.
Farsi vicini, prossimi, senza timore; pur nella complessità di certe situazioni, è la missione di sempre del cristiano. Da noi ci si attende una parola, un ascolto empatico, un incontro che faccia superare l’isolamento in cui spesso chi ha problemi resta confinato, in una realtà a volte parallela.
Vorrei una Chiesa pienamente cosciente che annunciare Cristo significa testimoniare l’Umano con cui Dio guarda tutti i suoi figli.
Vorrei una Chiesa che desidera incontrare i più fragili e chi gli sta accanto perchè sa che nelle situazioni di sofferenza e di sacrificio c’è un insegnamento profondo che edifica.
Vorrei una Chiesa dei piccoli gesti, che guarda non solo ai bisogni materiali, sanitari e umani dei disabili e delle loro famiglie ma anche - quando questi sono credenti – a quelli spirituali. Ai sacerdoti chiediamo di portarci la consolazione di Dio e il perdono di cui abbiamo grande bisogno.
Vorrei una Chiesa che non si rassegni alle porte chiuse, ma sappia inventarsi ostinatamente percorsi di incontro anche quando questi sembrano difficili o impossibili.
Vorrei donne e uomini di Chiesa che osino, nella semplicità, gettare ponti verso chi si trova in questa situazione, che si lascino interrogare e sappiano trarre insegnamento da questi incontri, per essere credibili agli occhi del mondo quando il mondo chiede di dare ragione di quanto crediamo.

Giuseppe Sordelli